Corpo a corpo con l’immagine

L’articolo affronta il tema della corporeità approfondendo quelle che sono le modalità attraverso cui osserviamo le immagini del nostro mondo e qual è il ruolo svolto dal corpo in questa attività percettivo-conoscitiva. L’analisi proposta si concentra sulla prospettiva antropologica applicata alle immagini inaugurata da Hans Belting. A partire da tale “antropologia delle immagini” risulta possibile comprendere la natura relazionale del fenomeno dell’immagine e la sua articolazione secondo la triade mezzo-immagine-corpo. L’importanza della corporeità e di una certa attivazione corporea necessaria per percepire le immagini che colpiscono il nostro sguardo diventa il nucleo centrale dell’argomentazione proposta. Il corpo viene presentato come il “luogo delle immagini” e l’attività percettiva viene interpretata come la realizzazione di un incontro-scontro tra il mio corpo ed il corpo dell’immagine.

Questo articolo è uno dei contributi selezionati dalla Call For Papers 2021 di Ritiri Filosofici, il cui tema è “Il corpo”. Per leggere tutti gli articoli clicca sull’immagine.

L’elemento della corporeità predispone le possibilità di svolgimento di ogni attività della vita quotidiana. Se possiamo fare qualcosa come prendere un oggetto, toccare un’altra persona o riconoscere la superficie liscia di un tavolo è perché il nostro corpo, con la sensibilità di cui è dotato, ci permette di farlo. Nel fare ciò emerge immediatamente la duplicità dell’elemento corporeo: non solo ci si rende conto di possedere un corpo, ma nel momento stesso in cui osserviamo il nostro ambiente e ci relazioniamo con esso sentiamo di essere un corpo. Il corpo che io ho ed il corpo che io sono coesistono e presiedono ad ogni attività percettivo-conoscitiva.

In questo articolo mi occuperò delle modalità attraverso cui ci rapportiamo ed osserviamo le immagini e del ruolo che la corporeità svolge in questa particolare attività. Parlare di immagini in una società «fondamentalmente spettacolista» e concentrata sui modelli di produzione (Debord 1992), ci pone dinnanzi ad una questione complessa. Viviamo una sovraesposizione alle varie forme della visibilità, con il rischio inevitabile di rimanerne travolti. In questo particolare contesto, emerge l’esigenza, apparentemente contraddittoria, di fermare le immagini che scorrono nei flussi audio-visivi e di effettuare una sorta di blocco-immagine che apra uno spazio di riflessione su ciò che ci sfugge e che, tuttavia, costituisce il fondamento di gran parte delle nostre pratiche quotidiane. Siamo «davanti all’immagine» (Didi-Huberman 1990) come davanti ad un’esperienza complessa nella quale siamo al contempo soggetto e oggetto, l’osservato e l’osservatore, il distanziato e l’interessato.

La relazione con l’immagine secondo la triade mezzo-immagine-corpo
Nella nostra esperienza visiva siamo fruitori più o meno consapevoli di immagini. Esse ci investono spesso senza essere vagliate attraverso un esercizio critico e scorrono sui nostri smartphone, sugli schermi televisivi, sulle varie piattaforme di streaming audiovisivo o sui cartelloni pubblicitari delle nostre città. Viviamo l’esperienza della visione in maniera sovente automatica, limitando i nostri interrogativi a ciò che vi è contenuto, a ciò che un’immagine ha da dirci o supponiamo voglia dirci.

Per andare oltre l’idea di un’immagine intesa semplicemente come oggetto rilevante per la sua funzione denotativa e per approfondire il ruolo della corporeità nel fenomeno della visione, qui ci si rifà all’antropologia delle immagini di Hans Belting, storico dell’arte tedesco e influente teorico dei media che, attraverso i suoi studi, ha voluto tracciare una storia dell’immagine separata dalla standardizzata storia dell’arte. Nella proposta di Belting, l’assunzione di un punto di vista antropologico e culturale intende rivolgersi alla relazione soggettiva con l’immagine al fine di determinare gli elementi in essa implicati. In questo caso, il termine “antropologia” non viene utilizzato in senso etnologico, bensì con un “significato europeo” che indirizza l’indagine verso lo statuto dell’immagine e dell’immaginario contemporaneo (Belting 2011, 10).

Da un punto di vista strettamente teorico, lo studioso propone un’interpretazione del concetto di immagine per mezzo della definizione della triade mezzo-immagine-corpo, con l’intento di riflettere sulla proliferazione contemporanea delle immagini e di adottare un approccio critico che prenda le distanze dalla supposizione di un loro primato. Il concetto di immagine deve dunque interfacciarsi con i concetti di mezzo e di corpo, sfidando gli stessi confini fisici dell’immagine ed estendendo il proprio dominio al di là della distinzione tra l’esistenza fisica e mentale delle immagini (quella che nella lingua inglese viene designata dalla distinzione tra i termini image e picture).

Secondo Belting «non dobbiamo considerare l’immagine soltanto come prodotto di un determinato mezzo (la fotografia, la pittura o il video), ma anche come prodotto del nostro io» (Belting 2011, 10). Ciò vuol dire che lo sguardo, nel percepire le immagini del mondo esterno, non si configura come semplice strumento della visione, ma coinvolge l’intero corpo vivente che interagisce con l’immagine trattando, ricevendo ed emettendo immagini. Grazie alla complessa ricettività del corpo vivente, siamo in grado di distinguere l’immagine dal suo mezzo, riconoscendo che essa non è un semplice oggetto e che è il suo “bisogno di media” a fare in modo che possa incarnarsi e offrirsi allo sguardo. Nel mezzo – che sia la pietra, il bronzo, la fotografia o lo schermo – l’immagine assume l’unica presenza possibile in un rapporto di non identità e di analogia con il corpo dell’immagine che diventa, in definitiva, l’unico collegamento tra le immagini e i nostri corpi. «Per l’antropologia l’uomo appare non più come signore delle proprie immagini, bensì, in maniera del tutto diversa, come luogo delle immagini che ne occupano il corpo. Nonostante egli provi sempre a dominarle, è abbandonato alle stesse immagini da lui generate» (Belting 2011, 20).

Il concetto di immagine chiamato in causa dall’approccio antropologico di Belting prende vita dal confronto tra immagine e mezzo come fossero due facce di una stessa medaglia; tuttavia, esso si arricchisce di un terzo elemento, quello della corporeità. «Allorché ci imbattiamo nei loro corpi mediali, noi animiamo le immagini come se vivessero o potessero parlarci» e un certo grado di coscienza corporea rende possibile il fatto dell’immagine (Belting 2011, 22). Quella con le immagini si configura come una relazione diretta, un vero e proprio corpo a corpo: il corpo dell’immagine, ovvero l’entità materiale nella quale l’immagine si incarna e prende vita, entra in relazione con il “corpo che io sono” come se potesse sfiorarlo. Tutto ciò si esprime per mezzo di una duplice relazione con la corporeità: in prima istanza si tratta di una relazione di analogia con il corpo che si realizza nel momento in cui interpretiamo il mezzo dell’immagine come elemento corporeo; in un secondo tempo, tale relazione fa sì che i mezzi possano raggiungere la nostra percezione e modificarla regolando la nostra stessa esperienza corporea. 

Fulcro di una relazione triangolata, il mezzo, lungi dall’essere considerato come ponte tra l’immagine e il corpo, appare piuttosto come forma di “autoespressione del mezzo” che si mostra allo sguardo e “diventa un’immagine solo se viene animato dal suo osservatore” (Belting 2011, p. 42). L’attività percettiva implica dunque uno stato di attivazione corporea per mezzo del quale il soggetto percipiente entra in relazione con il corpo dell’immagine e fa esperienza di quella duplice separazione e analogia tra sé e la presenza di altro da sé. Molto di più di un semplice prodotto della percezione, ogni immagine rimette in discussione il corpo in qualità di soggetto mediale attraverso un vero e proprio scontro tra corporeità differenti (il mio corpo ed il corpo dell’immagine) che rende il mondo a livello mediale “semplicemente più accessibile” (Belting 2011, 40).

Nel fenomeno dell’immagine avviene allo stesso tempo una “fuga nel corpo” e una “fuga dal corpo”, come ci testimonia in primis l’esperienza archetipica del corpo allo specchio, nella quale l’immagine riflessa ci consente di vedere il corpo proprio lì dove non c’è nessun corpo. In una simile esperienza percettiva possiamo notare che l’immagine prende forma nel suo mezzo e che colui che osserva, considerato come corpo percipiente, si ritrova dinanzi al corpo percepito: questa sorta di corpo contro corpo è l’unico modo per comunicare con un mondo che altrimenti non sarebbe accessibile ai nostri organi sensoriali.

Il corpo come luogo delle immagini
La presenza dell’immagine nel suo mezzo si realizza nella dialettica tra presenza e assenza: ogni volta che percepiamo un’immagine essa ci viene veicolata dal suo mezzo, tuttavia, al di là del mezzo e della sua presenza, è possibile scorgere una sovrapposizione di tempi, significati e immagini differenti. Le immagini si rapportano al mutamento storico e all’evoluzione tecnica dei mezzi adattandovisi con la trasformazione; in tal modo “sopravvivono e trovano il loro attuale modus rappresentativo” (Belting 2011, 44). Ciò vuol dire che per comprendere quale sia la natura dell’immagine non ci si può limitare alla sua attualità, ma che occorre collocare le immagini che percepiamo entro l’orizzonte della trasformazione dei mezzi attraverso cui esse appaiono. Tale processo trasformativo si sviluppa in duplice senso tra resistenza e trasformazione: in primo luogo l’immagine si incarna nel suo mezzo pur mantenendo una propria autonomia; in secondo luogo, una certa resistenza può essere riscontrata nell’incontro tra corporeità differenti. Infatti, “se nel corpo possiamo individuare il soggetto come luogo delle immagini che noi stessi siamo, allora possiamo dire che esso rimane una piéce de résistance contro la fuga dei media che, nelle attuali difficoltà, sembrano muoversi astutamente attraverso la sovrapproduzione figurativa” (Belting 2011, 45). Il mio corpo, il corpo che io sono, è distinto e tuttavia implicato da ciò che anima il suo sguardo; resiste e al contempo si concede alla multiformità della visione.

Tutte le varie tipologie di immagini che Belting prende in esame, a partire dall’articolazione teorica di mezzo-immagine-corpo, vogliono mostrare come nella genesi figurativa il corpo sia coinvolto non semplicemente come trasmittente, ma allo stesso tempo come produttore di immagini. Il fenomeno dell’immagine è generato da un gioco di sguardi che prende vita nell’incontro e nell’interazione tra i corpi. È quel che accade, ad esempio, quando ci troviamo dinanzi ad un dipinto – considerato in età moderna come il mezzo per eccellenza – che esige uno sguardo da parte dell’osservatore in grado di riconoscere l’immagine oltre la tela e di esercitare nel mezzo il proprio sguardo sul mondo. Ma l’eterogeneità delle immagini di cui si compone il panorama mediale contemporaneo ci porta a riconoscere non solo le immagini artistiche o pittoriche sui tradizionali mezzi fisici, ma anche le immagini digitali delle nuove interfacce. Belting si domanda se in questo caso sia ancora possibile far riferimento alla triade mezzo-immagine-corpo riagganciando le immagini ad un soggetto che nel percepirle esprime la sua relazione con il mondo. La risposta dell’autore verte sui modi di produzione dell’immagine: egli afferma che non esiste l’immagine in generale, ma che “la nostra immagine mentale è sempre un riflusso, una remanence, traccia e iscrizione delle immagini che vengono fornite dai mezzi attuali”. In tal senso, l’immagine digitale ci permette di analizzare il visibile e di presentarlo in una “sintesi soggettiva” in cui “le immagini digitali programmate producono in noi altre immagini mentali a loro antecedenti” (Belting 2011, 54). L’esperienza dell’immagine digitale si definisce soggettivamente in riferimento ad una decostruzione dell’immagine e ad una sua successiva ricostruzione che ci fa pensare subito alle operazioni del collage e del montaggio. Un approccio antropologico alle immagini s’imbatte dunque nell’idea che tutte le immagini ne chiamano in causa sempre delle altre e che, in un vero e proprio gioco tra immagine e mezzo, ciascuna immagine ne produce sempre di nuove poiché, come osserva Belting, “ogni immagine, una volta compiuto il suo ruolo nel presente, conduce poi a una nuova immagine” (Belting 2011, 71-72).

Tutte le immagini possiedono una certa forma temporale che è in genere quella della presenza, ma portano con sé anche una questione atemporale che riguarda la radice antropologica del produrre immagini e che consente di percorrere trasversalmente la linea del tempo riconnettendo tempi, immagini e mezzi differenti. Tutto questo si colloca in un preciso “luogo delle immagini” che, a giudizio di Belting, risiede naturalmente – nel senso del luogo naturale – nel corpo. Il corpo è “un luogo del mondo ed è un luogo dove le immagini vengono prodotte, conosciute e riconosciute” (Belting 2011, 74). Il corpo è inoltre il luogo delle tradizioni collettive che oltrepassano i limiti esistenziali e transitano di generazione in generazione e tra una cultura e l’altra. Il nostro corpo naturale rappresenta al contempo un corpo collettivo; in questo senso, si costituisce come il luogo in cui si manifestano le immagini di cui sono fatte le culture. Nel corpo si situa il punto di contatto tra l’immaginario personale e l’immaginario collettivo e si verifica lo scambio tra esperienza e ricordo. Pertanto, le immagini evocano la memoria e si rinnovano nel gioco di una ars combinatoria che prende vita, di volta in volta, in forma di immagine.

L’immagine e la logica del terzo incluso
La triangolazione del concetto di immagine introdotta da Belting presenta l’immagine come il dispositivo di una prassi estetica in cui l’essere umano è direttamente implicato. La complessità del fenomeno riguarda da vicino la questione delle condizioni di possibilità della visione e della relazione tra il nostro sguardo e la cosa vista. Marie-José Mondzain, filosofa franco-algerina dedita alla questione dell’immagine, allo studio delle icone bizantine e ai temi della politicizzazione del visibile; autrice di opere come Immagine, icona, economia. Le origini bizantine dell’immaginario contemporaneo e L’immagine che uccide. La violenza come spettacolo dalle torri gemelle all’Isis, definisce l’essere umano come homo spectator (Mondzain 2013). Proprio per mettere in evidenza la sua essenziale predisposizione alle pratiche dello sguardo. Se l’uomo è uno spettatore, le immagini costituiscono il necessario contraltare della sua spettatorialità.

Sulla scia di un’operazione di ri-concettualizzazione dell’immagine e nel tentativo di rispondere alla domanda su cosa significhi guardare un’immagine, la studiosa fa notare come le immagini non siano «oggetti posti anteriormente al nostro sguardo, bensì dei luoghi in cui i segni possono circolare tra di noi senza interruzioni» (Mondzain 2010, 311). Questa circolazione si realizza nella forma di un «commercio di sguardi», espressione con la quale viene designato un certo luogo di comune interesse che è anche il luogo in cui avviene l’incontro tra corporeità differenti (Mondzain 2019). Stando a questo specifico commercio, l’immagine non può essere compresa, secondo la categoria della rappresentazione, come un segno tra gli altri segni, ma deve poter essere (ac)colta per la sua capacità vivente di incarnarsi e di prendere luogo. L’incarnazione di cui parla la filosofa francese, ispirandosi all’incarnazione divina di Cristo, è l’evento che consente di “far diventare carne” e di “donare l’incarnato” ad una visibilità che assume in tal modo la sua corporeità.

Mondzain ci fa notare che nell’immagine incarnata si costituiscono tre istanze indissociabili: il visibile, l’invisibile e lo sguardo che mette in relazione. L’immagine appartiene pertanto ad una «strana logica del terzo incluso» (Mondzain 2017, 32). Le parole utilizzate dalla filosofa per descrivere il fenomeno dell’incarnazione delle immagini visibili sembrano riallacciarsi direttamente alla triangolazione del concetto di immagine descritta da Belting e fare appello alla libertà del soggetto e dello sguardo. L’immagine, infatti, raggiunge la sua visibilità soltanto a partire dalla relazione che si instaura tra l’osservato e l’osservatore: «in quanto immagine, di per sé, non mostra niente. Se mostra intenzionalmente qualcosa, allora comunica e non manifesta più la sua natura di immagine, ovvero l’attesa dello sguardo» (Mondzain 2017, 37).

I due autori trattati esprimono una comune modalità di approcciare il fenomeno dell’immagine che si esplica nell’utilizzo di concetti e parole molto simili, quasi sovrapponibili tra loro. Entrambi riconoscono l’essenziale relazionalità dell’immagine e ne evidenziano la dinamicità e l’impossibilità di ridurla alla semplice illustrazione di qualcosa di dato. Ciò vuol dire prediligere una considerazione dell’immagine alla luce di un’esperienza estetica che ne definisce l’apertura e l’inesauribilità e riconoscere che la corporeità, nelle sua varie sfaccettature, è il fulcro di ogni nuova conoscenza visibile.

 

Riferimenti bibliografici

  • Belting, Hans 2011: Antropologia delle immagini, Carocci, Roma.
  • Debord, Guy 1992: La Société du Spectacle, Gallimard, Paris.
  • Didi-Huberman, Georges 1990: Devant l’image. Question posée aux fins d’une histoire de l’art, Les édition de Minuit, Paris.
  • Mondzain, Marie-José 2013: Homo spectator: voir, faire, voir, Bayard, Paris.
  • Mondzain, Marie-José 2019: Le commerce des regards, Points, Paris.
  • Mondzain, Marie-José 2017: L’immagine che uccide. La violenza come spettacolo dalle torri gemelle all’Isis, Edizioni Dehoniane, Bologna.
  • Mondzain, Marie-José 2010: “What does seeing an image mean?”, in Journal of Visual Culture Vol. 9, pp. 307-315.

Photo by Igor Miske on Unsplash

Enza Maria Macaluso si laurea con lode presso l’Università degli Studi di Palermo in Scienze Filosofiche e Storiche con una tesi in Estetica dal titolo: Pensiero che forma, forma che pensa: l’analisi dell’immagine da un punto di vista morfologico. Attualmente i suoi interessi di studio riguardano tanto le questioni relative all’immagine e ai processi di costruzione dell’immaginario contemporaneo, quanto la tradizione e gli sviluppi della morfologia di impronta goethiana. I suoi progetti di ricerca si legano ad una possibile interazione tra il pensiero morfologico e gli studi sull’immagine che consideri la reciproca implicazione tra i concetti di forma e immagine.

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